I limiti dell’empatia ep. 2 – Dietro le sbarre

E’ possibile provare empatia per chi ha commesso un reato? Empatia non implica perdonare, né tantomeno giustificare, ma capire o almeno provarci.

È senza dubbio più facile essere empatici con chi ci
assomiglia o magari con chi ammiriamo. L’altro non è solo il nostro amico o
familiare a cui teniamo non è la donna giovane in cui rivediamo le nostre
difficoltà, non è la persona sofferente e basta. Gli altri sono tutti coloro
che entrano in qualche modo in contatto con il nostro mondo.  Gli altri sono anche coloro che sentiamo
ostili o semplicemente antipatici. Gli altri sono le persone negative e ostili.

Empatia e crimini

Per me è un’esperienza interessante il lavoro come interprete per il tribunale, soprattutto quando vado in carcere per le convalide di arresto. Già il carcere di per sé è una realtà a sé stante, un mondo a parte.

Un mondo che ti crea disagio, e non solo all’inizio, anche a vederlo per qualche minuto. Passi le porte del carcere, quelle grosse porte di ferro che si aprono lentamente – a turno, fino a che non è chiusa la prima la seconda non si apre – e entri in questo nuovo mondo.

Procedi per i vari livelli, i corridoi con pareti spoglie, se non scrostate. E la luce che entra è una luce “tagliata” dalle sbarre alle finestre. All’entrata hai dovuto lasciare la borsa, il pc, l’amato e indispensabile telefono (e ti rendi conto allora di quanto ne sei dipendente).

All’ultimo interrogatorio, visto che si protraeva oltre il pensato e dovevo chiamare per spostare l’impegno (altro punto: non programmare mai niente quando devi andare in carcere) mi sono ritrovata sbalzata di colpo in un’altra epoca… ho visto di fronte a me, in attesa della decisione del giudice, un telefono a gettoni o monete (non lo so con esattezza). Ma non avevo né i gettoni né le monete, avendo lasciato tutto all’entrata… uno choc, ve lo assicuro.

Questa introduzione sulla percezione del carcere fa capire
il livello di emozioni che l’ambiente scaturisce.

Ma l’esperienza veramente interessante da un punto di vista
personale è quella con i sospettati o detenuti. Molto spesso quando arrivano e
vengono presentati i capi di imputazione ho dei brividi su tutto il corpo.
Francamente spero sempre di trovarmi di fronte ai soliti reati (droga etc…)
perché in alcuni casi devo ammettere che le emozioni che ho provato sono state
veramente forti e decisamente spiacevoli.

Il mio ruolo è quello di tradurre e far capire al sospettato
le domande del giudice e viceversa tradurre quanto il sospettato dice. Spesso
il grosso del lavoro è su me stessa e sulle mie emozioni, per poter svolgere il
mio lavoro appieno. Anche se non ho un ruolo decisionale, non voglio che il mio
linguaggio del corpo, il tono della mia voce vadano ad influire e influenzare
sullo stato d’animo di chi è con me.

Il sospettato seduto accanto a me è l’altro. E lo è sia che
sia un “povero Cristo”, vittima a sua volta di giochi e pesci più grossi, sia
che sia lo sfruttatore/stupratore/omicida.

Spesso dopo un interrogatorio sono esausta. Per i contenuti,
per le dinamiche, per tutte queste emozioni messe in campo. Fin dove arriva
quindi l’empatia? Fin dove il rischio per l’alterità dell’altro diventa un
rischio troppo grande per la salvaguardia della nostra identità?

La Boella (nel saggio Empatie, vedi il mio articolo I limiti dell’empatia- 1) parla proprio dell’empatia in ambito giudiziario, riferendosi anche all’esperienza di avvocati, come Judie Clark, famosi per difendere i peggio dei peggio (the worst of the worst).

Quando ho letto questa parte del saggio ho rivisto le mie sensazioni e pensieri di quando sono in quella stanza degli interrogatori. Citando il giurista Thomas Colby, la Boella riporta che l’empatia è una capacità – e per questo può essere migliorata e sviluppata – e non un’emozione. “È l’abilità cognitiva di assumere la prospettiva di un altro unita alla capacità emotiva di comprendere e sentire le sue emozioni nella situazioni in cui si trova”.

Sicuramente un esercizio che consiglio a tutti, almeno a chi voglia mettere in gioco il proprio livello di empatia e quindi ampliarlo, è quello di lavorare sulla propria empatia verso chi ci urta, ci mette a disagio. Verso chi ci è ostile e magari ci ha fatto del male. Senza sentirsi nella morsa della simpatia, immedesimazione o compassione. Empatia non implica perdonare, né tantomeno giustificare, ma capire, o almeno provarci.

Non deridere, non compiangere, non disprezzare,
ma comprendere le azioni umane.”
Baruch Spinoza

L’empatia ti ha mai messa/o alla prova?

Ti sei sentita/o combattuta/o nel lasciarti andare o nel seguire la ragione?

Scrivilo nei commenti, sarà interessante condividere.

Nel caso tu voglia intraprendere un percorso di coaching, contattami per richiedere l’incontro gratuito. Ti aspetto!

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