Aspettare un segnale di approvazione e ricevere solo… silenzio. Un silenzio che in pochi secondi diventa un vortice di dubbi, supposizioni e critiche verso te stesso/a. Perché capita così spesso, anche quando sappiamo di aver fatto bene? In questo primo articolo esploreremo perché il “bravo/a” diventa quasi una droga, come le diverse generazioni hanno imparato a inseguirlo in modi differenti e cosa succede quando deleghiamo agli altri il potere di dirci quanto valiamo. E soprattutto, ti mostro come iniziare ad allenare il tuo “muscolo del valore interno” per non restare intrappolato/a nel circolo vizioso del riconoscimento esterno.
Hai presente quella sensazione quando mandi un’email di lavoro, frutto di ore di impegno, e aspetti il “bravo/a” come si aspetta il caffè al mattino?
E invece… pling!: ti arriva solo la notifica di una nuova riunione.
Il silenzio.
Quel silenzio che fa partire nella testa un film in tre atti:
“Forse non l’hanno letta.”
“Forse non è piaciuta.”
“Forse dovrei rifare tutto.”
Se ti è successo almeno una volta, benvenuto/a nel circolo vizioso del riconoscimento esterno: quel meccanismo per cui non ti basta fare bene, devi anche sapere che gli altri se ne sono accorti (e, possibilmente, che ti adorano per questo).
E no, non è solo colpa tua: c’entrano il modo in cui siamo stati cresciuti, le epoche che abbiamo attraversato, e qualche dinamica biologica che non si è evoluta quanto crediamo.
“Il problema non è quello che pensano di te… è quello che tu pensi che pensino di te.”
da Notting Hill
In questo articolo:
Come il tempo in cui sei nato/a ha addestrato il tuo “Bravo/a!” interiore
Il bisogno di approvazione non è nato con i like su Instagram.
Ha radici molto più profonde e, soprattutto, cambia forma a seconda dell’epoca in cui sei nato/a.
Perché sì, la generazione a cui appartieni ti ha addestrato/a senza che tu te ne accorgessi: c’è chi è cresciuto/a con l’idea che “i complimenti ti montano la testa” e chi invece è stato/a incoronato/a “genio incompreso” per ogni scarabocchio.
E in mezzo, tutte le sfumature possibili.
Per capirlo, dobbiamo fare un piccolo viaggio nel tempo… ma non ti preoccupare, niente lezioni di storia: sarà più una serie di fermo-immagine da film, con protagonisti e ambienti che forse ti somigliano più di quanto credi.
Quelli del “Bravo? Non farmi ridere”(aka Baby Boomer – 1946/1964)
Infanzia in bianco e nero, TG in sottofondo che parla di sacrificio e ricostruzione, e tu che torni a casa con un bel voto.
Risposta standard: “Hai fatto il tuo dovere”. Punto.
Il “bravo” era un evento raro, tipo eclissi totale.
Sul lavoro oggi siete come Clint Eastwood: granitici, instancabili… e un po’ confusi quando qualcuno vi fa un complimento vero (anche se dentro vi sciogliete).
Gli sfigati senza applausi (aka Generazione X – 1965/1980)
Nessuno vi ha mai montato la testa… anche perché non c’è mai stato il rischio.
Genitori sempre di corsa, complimenti distribuiti come caramelle prima di cena (cioè quasi mai), e un mantra inciso nella pietra: “Se non ti dico niente, vuol dire che va bene”.
Oggi siete dei MacGyver aziendali: risolvete problemi con una graffetta e un elastico… ma col radar sempre acceso per captare la minima pacca sulla spalla.
Quelli del musical finito male (aka Millennial – 1981/1996)
Da piccoli, applausi per il gol a porta vuota, medaglie di partecipazione, frigo tappezzato di disegni da “Picasso in vacanza”.
Poi, dritti nel mondo del lavoro versione Full Metal Jacket: precarietà, feedback col contagocce, iper-competizione.
Sul lavoro siete creativi e collaborativi, ma ogni tanto vi esce un candido: “Scusa… ma sto andando bene?”.
Gli ex MSN passati a Black Mirror (aka Generazione Z – 1997/2012)
I più grandi ricordano il suono del modem e il brivido di ricevere un “nudge” su MSN: il massimo dell’approvazione digitale era una gif glitterata.
Poi sono arrivati Facebook, YouTube e Instagram: applausi misurati in like, pubblici e spietati.
I più giovani, invece, sono nati direttamente in I più giovani, invece, vivono in un mondo che sembra uscito da Nosedive (Black Mirror). Lacie, la protagonista, fa di tutto per mantenere un punteggio sociale alto — sorrisi forzati, favori strategici, parole zuccherate — perché ogni interazione viene valutata da 1 a 5 stelle. Un crollo di punteggio significa perdere lavoro, casa e relazioni. Per molti nati dopo il 2000, like e follower funzionano allo stesso modo… e il silenzio è percepito come un “voto zero” implicito.
In ufficio siete rapidissimi e creativi… ma se il capo non risponde a una chat entro mezz’ora, parte il dramma interiore.
Gli eredi dell’emoji d’oro (aka Generazione Alpha – 2013/oggi)
Ancora lontani dal mondo del lavoro, ma già maestri nell’arte del feedback in tempo reale: “Vorrei una valutazione per questo compito in emoji, reel e recensione a cinque stelle, grazie”.
Crescono in un reality permanente con applausi a ogni passo.
Quando scopriranno che le email possono rimanere senza risposta… servirà un manuale di sopravvivenza.
Perché abbiamo bisogno di approvazione: un breve viaggio nella biologia (e nella testa)
Il bisogno di approvazione non è un vezzo, e nemmeno un difetto caratteriale: è un meccanismo radicato che affonda in diversi strati della nostra esperienza, passata e presente.
Le ragioni sono più profonde di quanto sembri:
Biologia – Per i nostri antenati, l’approvazione del gruppo era un lasciapassare per la sopravvivenza. Il riconoscimento attiva ancora oggi il sistema di ricompensa del cervello: dopamina pura. E, come ogni piacere chimico, crea assuefazione.
Educazione – O applausi razionati o applausi a pioggia: in entrambi i casi, raramente ci hanno insegnato a darceli da soli. Cresci così, e da adulto/a ti trovi a cercare negli altri lo specchio che non hai sviluppato internamente.
Società della performance – Viviamo in un contesto dove non basta fare bene: bisogna farlo vedere, raccontarlo, e possibilmente piacere a più persone possibili. Non è più solo “essere bravi/e”: è essere percepiti come tali.
Paura di non appartenere – Come dice Brené Brown, “il desiderio di approvazione è spesso un travestimento del bisogno di appartenenza”. Tradotto: se nessuno ti dice “bravo/a”, una parte di te teme di essere fuori dal gruppo.
Il problema? A furia di inseguire il “bravo/a” deleghiamo agli altri il potere di decidere quanto valiamo. È come lasciare le chiavi di casa a chiunque incontri, sperando che le usi solo per farti un complimento.
E per sopravvivere in questo circuito, sviluppiamo abilità speciali degne degli X-Men: leggere al volo il linguaggio del corpo, anticipare reazioni, adattarci a ogni contesto come Mystica che cambia forma a piacimento. Funziona… finché non ti accorgi che non ricordi più la tua forma originale
“Il complimento è un bacio attraverso un velo.”
Victor Hugo (Les Misérables)
Ora che abbiamo smontato il “motore” del bisogno di approvazione e capito da dove arriva, è il momento di fare qualcosa di pratico.
Perché la consapevolezza è preziosa, ma se resta solo in testa rischia di trasformarsi in un’altra analisi infinita che non cambia nulla nella vita reale.
E allora, come ogni buon allenamento, serve passare dal “so” al “faccio”.
Ti propongo un esercizio semplice all’apparenza, ma che può aprire crepe importanti nella corazza dell’abitudine: Lo specchio interno.
TIP di coaching – Lo specchio interno (versione potenziata)
Obiettivo: individuare quanto il tuo senso di valore dipende dal giudizio esterno e iniziare a spostare l’ago verso un’autovalutazione più solida.
Come farlo:
Due colonne
Disegna due colonne su un foglio.
Nella prima, scrivi almeno cinque qualità o punti di forza che senti di avere.La fonte
Per ogni qualità, chiediti: “Chi me l’ha detto per primo?”.Se la risposta è quasi sempre esterna (genitore, insegnante, capo, partner), segna un ✔ accanto.
Se viene da un’esperienza personale interna (“me ne sono accorto/a da solo/a”), lasciala senza segno.
Il test dell’assenza
Per ogni ✔, chiediti: “Se nessuno me lo avesse mai detto, lo crederei comunque?”.
Rispondi in modo onesto, senza filtri.Osserva il bilancio
Conta quanti ✔ hai. Non c’è un punteggio “giusto” o “sbagliato”: è una fotografia del momento, utile per capire dove lavori di più con lo sguardo verso l’esterno e dove invece la tua sicurezza parte già da dentro.
Perché funziona:
Questo esercizio interrompe il pilota automatico del “mi sento bravo/a solo se me lo dicono”. Ti mostra in quali aree hai già un’autostima autonoma e in quali invece ti appoggi ancora all’approvazione esterna. È il primo passo per allenare il tuo muscolo del valore interno.
Se lo fai con me:
Nel coaching, lo uso come base per un lavoro più profondo, perché dietro ogni ✔ spesso si nascondono storie, episodi e convinzioni che hanno modellato il tuo modo di cercare conferme. Farlo in autonomia ti apre una porta, farlo guidato/a ti permette di attraversarla senza perderti per strada.
In chiusura: la consapevolezza prima di partire per “il safari”
Se hai fatto l’esercizio, ora hai in mano una piccola mappa: le aree in cui la tua autostima cammina già con le sue gambe e quelle in cui invece si regge ancora sulle stampelle dell’approvazione altrui.
Non è un giudizio, è una consapevolezza: e come ogni consapevolezza, se coltivata, può trasformarsi in scelta.
E qui arriviamo alla prossima tappa.
Perché questo bisogno di approvazione, quando si sposta nel mondo del lavoro, non scompare: semplicemente si traveste.
E dà vita a un vero e proprio ecosistema aziendale, popolato da creature che si muovono, parlano e agiscono seguendo il richiamo dell’applauso.
Nel prossimo articolo, ti porterò a fare un safari aziendale per riconoscere che animale sei… e magari capire come uscire dalla tua gabbia.
“Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso.”
Eleanor Roosevelt (Questa è la mia storia)
Approfondimenti per chi vuole scavare più a fondo
Se vuoi andare oltre queste righe e vedere il bisogno di approvazione da prospettive diverse — psicologica, narrativa e cinematografica — ecco tre spunti per nutrire mente e curiosità.
- Un saggio – I sei pilastri dell’autostima di Nathaniel Branden
Più vicino al coaching che alla teoria pura, questo libro unisce psicologia e pratica. Branden scompone l’autostima in sei abitudini fondamentali e spiega come svilupparle giorno per giorno, così da non restare dipendenti dal giudizio esterno. - Un romanzo –Olive Kitteridge di Elizabeth Strout
Un romanzo di ritratti umani, con personaggi che affrontano il giudizio e la fatica di essere se stessi in comunità piccole e piene di sguardi. - Una serie – Nosedive (Black Mirror, primo episodio della terza stagione, 2016)
Un futuro rosa pastello in cui ogni interazione sociale viene valutata con stelline, e la vita dipende dal punteggio che ricevi. È il primo episodio della terza stagione della serie distopica di Charlie Brooker, e resta uno degli specchi satirici più riusciti per riconoscere le stesse dinamiche — meno estreme, ma reali — nei social e nella vita quotidiana.
E tu?
Quante volte ti sei reso/a conto di dare più valore al giudizio altrui che al tuo?
Se questo articolo ti ha ispirato, condividilo o lascia un commento.
Come coach ti aiuto a riconoscere questi meccanismi e a trasformare il bisogno di approvazione in una solida fiducia interna.
Con il giusto percorso, puoi smettere di aspettare applausi e iniziare a darti tu il riconoscimento che meriti.
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